Salve lettori di questo giornalino. Mi chiamo Francesca e lavoro alla Casa Albergo di Montichiari in via Guglielmo Marconi n° 115. La mia cooperativa si chiama Ecoop Services. Sotto questa cooperativa siamo in 6 e lavoriamo nelle pulizie. I giorni in qui lavoro sono: Lunedi e Venerdi dalle 18.30 alle 20.30. Io svolgo le seguenti mansioni: ▪ passare la statica, vuotare i cestini pulire gli ascensori. Adesso descrivo come eseguo queste mansioni. All’inizio vado nella prima saletta dove ci sono tre tavoli. Poi vado nelle altre due salette. In una passo la scopa soltanto, nell’altra saletta passo i due tavoli con la spugna. Pulisco i tre ascensori per poi asciugarli con lo straccio. Quindi passo il soggiorno pomeridiano il corridoio e la portineria con la statica. Il lunedi cambio anche i sacchetti della segreteria che sono cinque. Successivamente alle 19.30 vado a passare la sala mensa, dove ci sono 11 tavoli, con la scopa. I piani della Casa Albergo sono tre e si chiamano: piano 1 ORCHIDEA piano 2 GIRASOLE e il piano terra TULIPANO. Dal piano terra vado al piano della lavanderia a mettere i moci sporchi nella lavatrice e farla andare per terminare il turno di lavoro alle 20.30. a fare il turno di lavoro siamo in due. Aaah mi sono dimenticata che alla settimana faccio 4 ore cioè due giorni di 2 ore totale 4.

La mia storia è esclusivamente finita qui.
Francesca





Adesso vi faccio uno semi schema della nostra casa albergo dell’entrata.

Gabriele D’annunzio


Gabriele D'Annunzio nasce a Pescara il 12 marzo 1863 da famiglia borghese, che vive grazie alla ricca eredità dello zio Antonio D'Annunzio. Compie gli studi liceali nel collegio Cicognini di Prato (nella foto a sinistra), distinguendosi sia per la sua condotta indisciplinata che per il suo accanimento nello studio unito ad una forte smania di primeggiare. Già negli anni di collegio, con la sua prima raccolta poetica Primo vere, pubblicata a spese del padre, ottiene un precoce successo, in seguito al quale inizia a collaborare ai giornali letterari dell'epoca. Nel 1881, iscrittosi alla facoltà di Lettere, si trasferisce a Roma, dove, senza portare a termine gli studi universitari, conduce una vita sontuosa, ricca di amori e avventure. In breve tempo, collaborando a diversi periodici, sfruttando il mercato librario e giornalistico e orchestrando intorno alle sue opere spettacolari iniziative pubblicitarie, il giovane D'Annunzio diviene figura di primo piano della vita culturale e mondana romana.

Dopo il successo di 
Canto novo e di Terra vergine (1882), nel 1883 hanno grande risonanza la fuga e il matrimonio con la duchessina Maria Hardouin di Gallese, unione da cui nasceranno tre figli, ma che, a causa dei suoi continui tradimenti, durerà solo fino al 1890. Compone i versi l'Intermezzo di rime ('83), la cui «inverecondia» scatena un'accesa polemica; mentre nel 1886 esce la raccolta Isaotta Guttadàuro ed altre poesie, poi divisa in due parti L'Isottèo e La Chimera (1890).

Ricco di risvolti autobiografici è il suo primo romanzo 
Il piacere (1889), che si colloca al vertice di questa mondana ed estetizzante giovinezza romana. Nel 1891 assediato dai creditori si allontana da Roma e si trasferisce insieme all'amico pittore Francesco Paolo Michetti a Napoli, dove, collaborando ai giornali locali trascorre due anni di «splendida miseria». La principessa Maria Gravina Cruyllas abbandona il marito e va a vivere con il poeta, dal quale ha una figlia. Alla fine del 1893 D'Annunzio è costretto a lasciare, a causa delle difficoltà economiche, anche Napoli.

Ritorna, con la Gravina e la figlioletta, in Abruzzo, ospite ancora del Michetti. Nel 1894 pubblica, dopo le raccolte poetiche 
Le elegie romane ('92) e Il poema paradisiaco ('93) e dopo i romanzi Giovanni Episcopo ('91) e L'innocente ('92), il suo nuovo romanzo Il trionfo della morte. I suoi testi inoltre cominciano a circolare anche fuori dall'Italia.

Nel 1895 esce 
La vergine delle rocce, il romanzo in cui si affaccia la teoria del superuomo e che dominerà tutta la sua produzione successiva. Inizia una relazione con l'attrice Eleonora Duse, descritta successivamente nel romanzo «veneziano» Il Fuoco (1900); e avvia una fitta produzione teatrale: Sogno d'un mattino di primavera ('97), Sogno d'un tramonto d'autunnoLa città morta ('98), La Gioconda ('99), Francesca da Rimini (1901), La figlia di Jorio (1903).

Nel '97 viene eletto deputato, ma nel 1900, opponendosi al ministero 
Pelloux, abbandona la destra e si unisce all'estrema sinistra (in seguito non verrà più rieletto). Nel '98 mette fine al suo legame con la Gravina, da cui ha avuto un altro figlio. Si stabilisce a Settignano, nei pressi diFirenze, nella villa detta La Capponcina, dove vive lussuosamente prima assieme alla Duse, poi con il suo nuovo amore Alessandra di Rudinì. Intanto escono Le novelle della Pescara (1902) e i primi tre libri delle Laudi (1903). 

Il 1906 è l'anno dell'amore per la contessa 
Giuseppina Mancini. Nel 1910 pubblica il romanzo Forse che sì, forse che no, e per sfuggire ai creditori, convinto dalla nuova amante Nathalie de Goloubeff, si rifugia in Francia.

Vive allora tra 
Parigi e una villa nelle Lande, ad Arcachon, partecipando alla vita mondana della belle époque internazionale. Compone opere in francese; al «Corriere della Sera» fa pervenire le prose Le faville del maglio; scrive la tragedia lirica La Parisina, musicata da Mascagni, e anche sceneggiature cinematografiche, come quella per il film Cabiria (1914).

Nel 1912, a celebrazione della guerra in Libia, esce il 
quarto libro delle Laudi. Nel 1915, nell'imminenza dello scoppio della prima guerra mondiale, torna in Italia. Riacquista un ruolo di primo piano, tenendo accesi discorsi interventistici e, traducendo nella realtà il mito letterario di una vita inimitabile, partecipa a varie e ardite imprese belliche, ampiamente autocelebrate. Durante un incidente aereo viene ferito ad un occhio. A Venezia, costretto a una lunga convalescenza, scrive il Notturno, edito nel 1921.

Nonostante la perdita dell'occhio destro, diviene eroe nazionale partecipando a celebri imprese, quali la 
beffa di Buccari e il volo nel cielo di Vienna. Alla fine della guerra, conducendo una violenta battaglia per l'annessione  all'Italia dell'Istria e della Dalmazia, alla testa di un gruppo di legionari nel 1919 marcia su Fiume e occupa la città, instaurandovi una singolare repubblica, la Reggenza italiana del Carnaro, che il governo Giolitti farà cadere nel 1920. Negli anni dell'avvento del Fascismo, nutrendo una certa diffidenza verso Mussolini e il suo partito, si ritira, celebrato come eroe nazionale, presso Gardone, sul lago di Garda, nella villa di Cargnacco, trasformato poi nel museo-mausoleo del Vittoriale degli Italiani. Qui, pressoché in solitudine, nonostante gli onori tributatigli dal regime, raccogliendo le reliquie della sua gloriosa vita, il vecchio esteta trascorre una malinconica vecchiaia sino alla morte avvenuta il primo marzo 1938.

Luigi Pirandello



Nasce ad Agrigento nel 1867, da una famiglia dell'agiata borghesia, proprietaria di una miniera di zolfo. Sia la madre che il padre parteciparono attivamente alla campagna garibaldina in Sicilia. Dopo aver frequentato il liceo classico a Palermo, Pirandello si iscrive alla facoltà di Lettere dell'Università di Roma, dedicandosi soprattutto alla filologia romanza. In seguito a un violento litigio con un docente, si trasferisce a Bonn nel 1889, dove nel '91 si laurea con una tesi sul dialetto di Agrigento. A Bonn resta come lettore d'italiano per un anno.
Nel '93 torna in Italia. L'anno dopo si sposa con la figlia di un socio di suo padre. Il matrimonio era stato quasi "combinato". Si stabilisce con la famiglia a Roma ed entra nella vita culturale e letteraria del suo tempo, collaborando a numerosi periodici: stringe amicizia con Luigi Capuana, mentre resta ostile al D'Annunzio. Nel '97 assume, come incaricato, l'insegnamento di Letteratura italiana (stilistica) presso l'Istituto superiore di Magistero a Roma; nel 1908 ne diventa professore ordinario insegnando sino al 1922.
Nel 1903 una frana con allagamento distrugge la miniera di zolfo nella quale erano stati investiti sia i capitali di suo padre che la dote di sua moglie, la quale, già sofferente di nervi (sospettava continuamente che il marito la tradisse), si ammalò gravemente, cominciando a manifestare i primi segni di uno squilibrio psichico che la condurrà poi in manicomio. Pirandello reagì a questa situazione conducendo a Roma vita ritirata (per non offrire pretesti alla follia della moglie, ma inutilmente) e lavorando intensamente, anche per far fronte alle difficoltà economiche (insegnava, scriveva e dava lezioni private).
Tuttavia, le sue novelle, raccolte poi col titolo Novelle per un anno, e i suoi romanzi (L'esclusaIl turnoIl fu Mattia Pascale altri), nonché i suoi saggi (in particolare L'umorismo) passarono quasi inosservati. La celebrità gli giunse soltanto in età matura, quando -a partire dal 1916- si rivolse quasi interamente al teatro. Le sue commedie, talvolta accolte con dissensi clamorosi, si imposero al pubblico soprattutto dopo la fine della I guerra mondiale. Ottennero vasta risonanza LiolàPensaci Giacomino!Così è (se vi pare)Sei personaggi in cerca d'autoreL'uomo dal fiore in boccaEnrico IV e molte altre commedie.
Nel 1921 inizia ad ottenere grande successo anche all'estero (Praga, Vienna, Budapest, Usa, Sudamerica...), oscurando la fama del D'Annunzio. Nel '24 si iscrive al partito fascista, pochi mesi dopo l'assassinio di Matteotti e forte sarà la sua polemica con Amendola. Tuttavia, Pirandello, che si era iscritto solo per aiutare il fascismo a rinnovare la cultura, restandone presto deluso, non si è mai interessato di politica. Nel '29 il governo Mussolini lo include nel primo gruppo dell'Accademia d'Italia appena fondata (insieme a Marinetti, Panzini, Di Giacomo...): questo era allora il massimo riconoscimento ufficiale per un artista italiano, ma Pirandello non se ne dimostrò affatto entusiasta. Nel '25 assunse la direzione di una compagnia teatrale di Roma, che resterà in vita sino al '28.
Nel '34 gli viene conferito il premio Nobel per la letteratura. Mussolini, attraverso il Ministero degli Esteri, cercò subito di sfruttarne la fama internazionale sperando di usarlo come portavoce estero delle ragioni del fascismo impegnato nella conquista dell'Etiopia. Nel luglio del '35 infatti il drammaturgo doveva partire per Broadway, per rappresentare alcuni suoi capolavori e sicuramente sarebbe stato intervistato dai giornalisti. Ma Pirandello non si prestò a tale servilismo.
Durante le riprese cinematografiche de Il fu Mattia Pascal, effettuate a Roma, si ammala di polmonite e muore nel '36, lasciando incompiuto I giganti della montagna. A dispetto del regime fascista, che avrebbe voluto esequie di Stato, vengono rispettare le clausole del suo testamento: "Carro d'infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m'accompagni, né parenti né amici. Il carro, il callo, il cocchiere e basta". E così fu fatto.
Ideologia e Poetica
Essendo siciliano, anche Pirandello muove da moduli veristi con novelle paesane, ma da subito il suo verismo è caricaturale e grottesco, inteso a scardinare polemicamente i nessi logici della realtà, soprattutto laddove questi nessi non sono altro che pregiudizi borghesi. I suoi temi di fondo sono già tutti presenti nel suo primo romanzo, L'esclusa (1901) che narra la storia di una donna cacciata di casa dal marito perché ritenuta, ingiustamente, adultera, poi riammessa proprio quando l'adulterio l'ha realmente compiuto.
I temi di fondo sono:
il contrasto tra apparenza (o illusione) e realtà (o tra forma e vita), nel senso che l'uomo ha degli ideali che la realtà impedisce di vivere, poiché la realtà si ferma all'apparenza e non permette all'uomo di essere se stesso; ● l'assurdità della condizione dell'uomo, fissata in schemi precostituiti (adultero, innocente, ladro, iettatore, ecc.): a ciò Pirandello cercherà di opporre il sentimento della casualità o imprevedibilità delle vicende umane; molte sue commedie rappresentano situazioni inverosimili o paradossali, proprio per mettere meglio in luce l'assurdità dei pregiudizi borghesi; ● le molteplici sfaccettature della verità (tante verità quanti sono coloro che presumono di possederla) espresse col "sentimento del contrario" (che è alla base del suo umorismo e che viene utilizzato per vanificare ogni possibile illusione).
Pirandello ha una concezione relativistica dell'uomo, che ne esclude una conoscenza scientifica. L'uomo è troppo assurdo per essere capito (mentre la natura è più semplice, inconsapevole, felice, anche se resta un paradiso perduto e rimpianto). Il borghese si dibatte fra ciò che sente dentro (sempre mutevole) e il rispetto che deve alle convenzioni sociali (sempre fisse e stereotipate). La "forma" o "apparenza" è l'involucro esteriore che noi ci siamo dati o in cui gli altri ci identificano; la "vita" invece è un flusso di continue sensazioni che spezza ogni forma. Noi crediamo di essere "forme stabili" (personalità definite): in realtà tutto ciò è solo una maschera dietro cui sta la nostra vera vita, fondata sull'inconscio, cioè sull'istinto e sugli impulsi contraddittori. Parafrasando un titolo di un suo romanzo, si potrebbe dire che noi siamo "uno" (perché pretendiamo di avere una forma), "nessuno" (perché non abbiamo una personalità definita) e "centomila" (perché a seconda di chi ci guarda abbiamo un aspetto diverso).
L'uomo, in definitiva, è soggetto al caso, che lo rende una marionetta, che gli impedisce di darsi una personalità. Ogni personaggio teatrale è immerso in una tragica solitudine che non consente alcuna vera comunicativa: sia perché il dialogo non ha lo scopo di far capire le cose o di risolvere i problemi, ma solo di confermare l'assurdità della vita; sia perché ogni tentativo di comprendersi reciprocamente è fondato sull'astrazione delle parole (sofistica), che non riflettono più valori comuni, ma solo la comune alienazione (i dialoghi sono cervellotici e filosofici). D'altra parte, questa è una delle novità del teatro pirandelliano, che lo avvicina molto a quello di Brecht, Ionesco, Beckett..., dandogli una rilevanza mondiale.
Il "sentimento del contrario", tuttavia, potrebbe portare al suicidio o alla follia, se assolutizzato. Pirandello evita questa soluzione affermando che in un'epoca decadente, dove tutto è relativo, solo un'arte umoristica è possibile, un'arte cioè che sappia cogliere i sotterfugi e le piccole meschinità delle persone, senza però che tutto questo divenga oggetto di riso. L'uomo non può far di meglio: ecco perché merita compassione. L'umorista non solo denuncia il vuoto della società borghese, le costruzioni artificiose con cui cerchiamo di ingannare gli altri e noi stessi, ma ha pure pietà dell'uomo che si comporta così, condizionato com'è dal più generale mentire sociale.
Pirandello non ha mai cercato le cause dell'alienazione che caratterizza tutti i suoi personaggi, presi dalla piccola borghesia (impiegati, insegnanti, ecc.). Egli ne attribuisce, in modo generico, alla storia e al caso la responsabilità. Solo nel romanzo I vecchi e i giovani scorge nel fallimento degli ideali risorgimentali e borghesi di libertà e giustizia, la causa storica e sociale della moderna crisi d'identità.
Aspetti critici
Pirandello ha sì trasmesso la percezione di una realtà come illusione, come insignificanza dell'esistenza umana, come forma impossibile di una verità delle cose, ma, per non apparire tragico, ha usato, a sua volta, l'illusione dell'ironia, dell'umorismo, con cui far credere di poter sopportare tutte le assurdità del vivere quotidiano.
Non c'è novella, se non le ultime, in cui, nel mentre si denuncia il non-senso della vita borghese, non si plauda al fatto che, usando lo strumento illusorio dell'ironia, si possa fingere che quella realtà non abbia contraddizioni così inconcepibili da renderla insopportabile. Se il contenuto della novella o della commedia avesse dovuto portare al suicidio, non avrebbe certo potuto avere un riconoscimento così vasto.
Per Pirandello l'umorismo è stato senza dubbio una valvola di sfogo, un modo per uscire dalla depressione, dalla crisi esistenziale del periodo giovanile, ma è stato anche un'operazione di marketing, che gli ha permesso di conseguire un successo mondiale. Egli aveva fiutato la possibilità d'arricchirsi sfruttando proprio le debolezze della società borghese, trasfigurate magistralmente in chiave comico-ironica, per quanto sempre all'interno di una cornice amara, che in fondo serviva per non rendere troppo surreali le proprie trame (cosa che avrebbe reso difficoltosa l'identificazione coi protagonisti).
Pirandello aveva trovato un filone d'oro e s'era messo nella condizione ideale di poter produrre lingotti in serie, come la Zecca del Tesoro, semplicemente limitandosi a fare variazioni sul tema. La sua era davvero una recitazione a soggetto, come nella gloriosa commedia dell'arte, con la differenza che gli attori ripetevano le battute decise da lui.
Il cosiddetto "sentimento del contrario", usato in tutta la sua produzione, ha spesso un carattere alquanto artificioso, funzionale all'esaltazione dell'ironia. Non è una constatazione che parte dalla realtà, anzi, viene usato per attenuare se non mistificare le vere contraddizioni sociali. E' una mera operazione intellettualistica, usata ad arte, allo scopo di produrre una sorta di effetto speciale. Pirandello è come un prestigiatore dei diversi casi della vita, i quali, sotto la sua penna, da normali diventano assurdi, e quando sono davvero assurdi, nella realtà, vengono fatti rientrare, grazie all'ironia, nella inevitabilità quotidiana, caratterizzata da un tragicomico non-sense, in quanto la fatalità negativa non è un'eccezione ma la regola. L'eccezione, al massimo, è la casualità positiva, che però, proprio perché eccezione, è destinata a durare poco, anche perché, se durasse troppo, impedirebbe la trasformazione magmatica della realtà in scrittura e quindi proprio il trucco dell'illusionista.
Pirandello ha potuto fare questo proprio perché se fosse rimasto in Sicilia non avrebbe potuto avere uno sguardo ironico su quella stessa società borghese che lui criticava e che aveva devastato l'isola in maniera infinitamente peggiore di quanto avevano fatto i Borboni. Andando invece a studiare all'estero e vivendo prima a Roma e poi ovunque il successo lo portasse, egli aveva saputo tenere insieme, in maniera originalissima, la concezione meridionale assolutamente negativa della vita borghese, con quella forma di distacco autoironico che aveva la piccola-borghesia urbana, nazionale e, sarebbe meglio dire, europea, se non addirittura occidentale, poiché il successo ch'egli acquisì fu stupefacente, essendo funzionale a un sistema sociale e politico che aveva bisogno di un grande personaggio (in tal caso un letterato e commediografo) che sapesse ironizzare sulle contraddizioni sociali della borghesia, soprattutto dopo che questa aveva portato l'umanità alla catastrofe della I guerra mondiale.
Un intellettuale come lui non poteva però interessare i regimi nazi-fascisti, proprio perché questi volevano sfruttare le debolezze della borghesia in chiave politica e ideologica, al fine di creare una società borghese più forte, più coerente, più convinta della propria superiorità a livello mondiale. Pirandello poteva interessare al fascismo solo fino al punto in cui evitava di proporre soluzioni non-borghesi alle contraddizioni del capitalismo, ma non poteva più tornare comodo quando, di fronte a quelle stesse contraddizioni, assumeva un atteggiamento rassegnato, rinunciatario. Inevitabilmente, sotto questo aspetto, il fascismo gli preferì D'Annunzio e il nazismo considerò "degenerata" la sua opera.
E altrettanto inevitabilmente la critica letteraria lo ha voluto collocare tra i decadenti (non foss'altro che per il suo opportunismo politico nei confronti del regime, ma ovviamente non solo per questo). Tuttavia non s'è compreso a sufficienza ch'egli aveva voluto fare della sua visione ambigua delle cose, in forza della quale non si può mai essere sicuri dove stia la verità e dove la finzione, un'occasione di business e di riscatto personale, che nulla aveva a che vedere con gli aspetti introversi della letteratura borghese decadente (alla Svevo, per intenderci).
Pirandello non è un uomo che di fronte alle contraddizioni sociali prova una sofferenza che va in profondità, ma è senza dubbio un intellettuale che le sa utilizzare come forma di autoaffermazione: non si piangeva addosso come il Verga. In questo senso resta modernissimo e, se si vuole usare la parola "decadente", lo si deve fare non in riferimento al suo modo di gestire la cultura, ma solo al rifiuto consapevole di andare sino in fondo nell'analizzare il malessere della vita sociale.
Pirandello ha saputo teorizzare la follia restando lucido sino alla fine, perché aveva capito, vedendo il consenso "folle" del pubblico, che poteva giocare su questo argomento realizzando una notevole fortuna e uscendo finalmente dalla tetraggine del meridionalismo autoflagellante. Il meglio di sé non lo dà certo quando mette alla berlina la cultura meridionale, quella cultura che gli impediva di affermarsi socialmente.
La vita di Giovanni Pascoli


Giovanni Pascoli nacque a San Mauro di Romagna nel 1855. A sette anni iniziò gli studi nel collegio dei Padri Scolopi di Urbino. Appena dodicenne perse tragicamente il padre assassinato mentre rincasava. Poco dopo la morte del padre il Pascoli perse anche la madre e alcuni fratelli, e la famiglia cadde nella miseria e nel dolore. Il poeta poté giungere alla laurea grazie ad una borsa di studio che gli permise di frequentare l’università di Bologna. Nel 1882 ottiene un posto al liceo di Matera ed in seguito insegna all’università di Messina, dove vive, ma ritorna spesso a Castelvecchio dove muore di cancro il 6 aprile del 1912.
Opere principali
Giovanni Pascoli
Tra le opere del Pascoli ricordiamo: Myricae I Poemi Conviviali Primi Poemetti Odi e Inni Canti di Castelvecchio. Il pensiero del Pascoli Pascoli ebbe una concezzione dolorosa della vita, sulla quale influiscono due fatti principali: la tragedia familiare e la crisi di fine ottocento. La tragedia familiare colpì il poeta quando il 10 Agosto del 1867 gli fu ucciso il padre. Alla morte del padre seguirono quella della madre, della sorella maggiore, e dei fratelli Luigi e Giacomo. Questi lutti lasciarono nel suo animo un dolore profondo e gli ispirarono il mito del “nido” famigliare da ricostruire. Infatti la casa è il rifugio nel quale i dolori e le ansie si placano. La poesia Nei canti di Castelvecchio ha particolare incidenza il tema del nido famigliare, il senso del mistero, connesso al dolore della vita e all’angoscia della morte. Tra questi ricordiamo il x Agosto:
San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché si gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto
la cena dei suoi rondinini.
Ora, è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono…
Ora la, nella casa romita
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito addita
le bambole al cielo lontano.
E tu, cielo, dall’alto dei mondi
sereni infinito, immortale
oh! D’un pianto di stelle lo inondi
quest’ atomo opaco del male.
Commento del testo
Nella notte del 10 agosto, festa di San Lorenzo, si può ammirare il fenomeno delle stelle cadenti. Lo stesso giorno è l’anniversario della morte del padre, ucciso in un agguato mentre rincasava.

Il poeta in questa poesia paragona il padre che al momento della sua morte portava in dono alle sue bambine le bambole, alla rondine anch’essa uccisa mentre tornava al nido con in bocca un verme che voleva portare come pasto ai suoi rondinini.

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